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  giugno 2022

Opposizione proletaria ai venti di Guerra Fredda degli imperialisti U.S.A.-UE-NATO!

Lo spauracchio dell’“imperialismo russo”

Tradotto da “The Bugbear of ‘Russian Imperialism’”, The Internationalist (maggio 2014), organo dell’Internationalist Group, sezione statunitense della Lega per la Quarta Internazionale

Nella crisi globale scatenata dalla battaglia sull’Ucraina, gli imperialisti stanno preparando una nuova guerra fredda. Nella Prima Guerra Fredda, che fece seguito alla Seconda Guerra Mondiale, l’obiettivo delle minacce militari, economico e politiche dell’Occidente era lo stato operaio burocraticamente degenerato dell’Unione Sovietica. Dopo un breve interludio di “distensione”, dovuta all’ignominiosa sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam nel 1975, una Seconda Guerra Fredda antisovietica venne avviata allorché Washington provocò l’intervento di Mosca in Afghanistan nel 1980. Ora, due decenni dopo la controrivoluzione del 1989-92 che ha fatto crollare il blocco sovietico e ha fatto a pezzi l’URSS, l’incombente Terza Guerra Fredda è diretta contro la Russia capitalista. Le denunce e le sanzioni quotidiane da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO, unite all’isteria dei mass media imperialisti, sono lugubremente familiari. Per il momento le minacce sono principalmente verbali e parlano di “punire” Putin per aver violato le regole del “Nuovo Ordine Mondiale” post-sovietico di egemonia sfrenata degli Stati Uniti.1 Ma la guerra di propaganda e la guerra economica fanno presagire, in ultima analisi, una guerra vera e propria.

In questo conflitto, parecchi gruppi social­democratici fanno eco ai mass media occidentali, inveendo contro l’“imperialismo russo” per es­sersi incorporato la Crimea e accusando Mosca di fomentare disordini nell’Ucraina orientale. Passano allegramente sopra al fatto che la Cri­mea è stata storicamente parte della Russia e che la schiacciante maggioranza della popolazione della Crimea è fortemente favorevole all’adesione alla Russia. Scartano le rivolte contro il regime di Kiev a Donetsk e Lugansk come opera di “provocatori” russi, ignorando l’evidente sostegno di massa all’autogoverno tra la popolazione in gran parte russofona di questa regione industriale. Le pretese di questi riformi­sti, che affermano di opporsi anche all’imperialismo occidentale, sono una cinica co­pertura, in quanto essi si schierano con la giunta di Kiev, composta da fascisti e da ultradestri libe­risti, che ha preso il potere con l’appoggio degli Stati Uniti, della NATO e dell’Unione Europea.

Ecco alcuni dei ritornelli intonati da questo coro pro-imperialista e pseudo-socialista.

Il Socialist Workers Party britannico (SWP/UK) dichiara: “I rivali imperialisti spingono l’Ucraina sull’orlo della guerra”, affermando poi che: “L’intervento in Crimea ha intensificato un gioco mortale tra la Russia e l’Occidente” (Socialist Worker [UK], 8 marzo 2014). Nello stesso numero di quel giornale, un articolo del guru del SWP/UK Alex Callinicos sostiene che il presidente russo “Putin è impegnato in un gioco di potere interimperialista” e che combattere l’imperialismo “significa opporsi all’intervento russo in Ucraina”. L’SWP britannico fa parte della corrente fondata dal defunto Tony Cliff, che ruppe con la Quarta Internazionale trotskista all’alba della Prima Guerra Fredda, rifiutandosi di difendere l’Unione Sovietica contro l’imperialismo e giustificando tale posizione con la pretesa che l’URSS era “capitalista di stato”.

Un altro gruppo socialdemocratico britannico, Workers’ Liberty (WL), proclama: “La Russia è un paese imperialista che cerca di negare l’autodeterminazione dell’Ucraina e di subordinarla a sé. Noi sosteniamo le lotte degli ucraini per la libertà nazionale così come sosteniamo le lotte per la libertà di altre nazioni oppresse o potenzialmente oppresse” (dal sito web di Workers’ Liberty, 17 aprile 2014). Nel corso della Seconda Guerra Fredda degli anni Ottanta, la corrente che divenne WL abbracciò l’eredità di un altro rinnegato del trotskismo, Max Shachtman, il quale ruppe con Trotsky alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e si rifiutò di difendere l’URSS contro l’invasione della Germania nazista sostenendo, per giustificarsi, che l’Unione Sovietica non era affatto uno stato operaio, bensì uno stato “collettivista burocratico”.

Negli Stati Uniti, il principale gruppo cliffista è l’International Socialist Organization (ISO), che ha dichiarato: “L’imperialismo russo ha fatto la sua mossa per mantenere il dominio politico ed economico sul paese mediante l’acquisizione della Crimea – cosa che dovrebbe essere condannata incondizionatamente da tutti i rivoluzionari che si proclamano antimperialisti” (Socialist Worker [U.S.A.], 11 marzo 2014). L’ISO ha denunciato a gran voce gli esponenti della sinistra che hanno condannato l’imperialismo U.S.A./NATO invece della “Russia, vecchio e attuale padrone imperiale dell’Ucraina”, e ha affermato che: “La destra può sfruttare la legittima ostilità all’imperialismo russo” (Socialist Worker, 12 marzo 2014). Si tratta di una palese giustificazione della propaganda fascista di Pravyj Sektor (Settore di Destra), Svoboda e altri.2 Da parte sua, la centrista League for the Revolutionary Party (LRP), le cui radici affondano nella tendenza di Shachtman, invita a: “Difendere l’Ucraina contro l’imperialismo russo” (dal sito web della LRP, 18 marzo 2014).

Non è un caso che i raggruppamenti usciti dalle correnti shachtmanista e cliffista, virulentemente antisovietiche, siano oggi alla testa del branco che ulula contro l’“imperialismo russo”, visto che lo fanno da quando hanno rotto con il trotskismo sulla fondamentale “questione russa”. È anche importante osservare che tutti loro sostengono che la Cina odierna è capitalista, e alcuni la etichettano addirittura come “imperialista”, rifiutandosi di difendere lo stato operaio deformato cinese dalla controrivoluzione e dalle minacce e macchinazioni dei veri imperialisti. Si noti anche che, sulla base di un comune antisovietismo, sia i cliffisti che gli shachtmanisti hanno sostenuto le propaggini “di sinistra” del fascista Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), fondato dal collaborazionista nazista Stepan Bandera nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando questo veniva mantenuto in vita dalle agenzie di spionaggio statunitensi.

Questo ci porta alla seconda ragione del perché il clamore socialdemocratico riguardo all’“imperialismo russo” in Ucraina è politicamente logico: molte di queste propaggini hanno ripe­tutamente appoggiato ogni sorta di nazionalisti e ultrareazionari foraggiati dall’imperialismo occidentale. I gruppi di sinistra che hanno acclamato i mujahedin mercenari della CIA contro l’intervento sovietico in Afghanistan, che mentre l’URSS si stava disgregando hanno lodato gli Einsatzgruppen delle SS baltiche che perpetravano stermini di massa degli ebrei, e che dipingono come rivoluzionari gli jihadisti islamisti filo-imperialisti in Libia e in Siria, non si fanno scrupoli nello schierarsi con una giunta ucraina formata da fan­tocci di destra di Washington, di Wall Street e degli eu­robancari che impongono una feroce austerità antipro­letaria, sostenuti da squadracce di assassini fascisti.

Come la mascotte Nipper della RCA Victor nel vecchio logotipo del grammofono, questi cani da salotto “di sinistra” dell’imperialismo U.S.A./NATO abbaiando contro l’’“imperialismo russo” non fanno altro che riecheggiare “la voce del loro padrone”. Gli shachtmanisti e i cliffisti sostenevano di far parte del “terzo campo” rispettivamente durante la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda antisovietica. Mentre i trotskisti si battevano tenacemente per difendere lo stato operaio degenerato sovietico, nonostante e contro la leadership burocratica di Stalin e dei suoi eredi, le cui politiche mettevano in pericolo la sopravvivenza del primo stato operaio della storia, questi antitrotskisti proclamavano: “Né Washington né Mosca”. In realtà un “terzo campo” non esisteva, ed essi finirono per essere seguaci del primo “campo”, quello imperialista.

La Russia è imperialista? I. Monopolio ed esportazione di capitale

Non tutti a sinistra ripetono il ritornello imperialista sull’Ucraina, ma tra coloro che non lo fanno c’è poca chiarezza sulla natura degli Stati capitalisti emersi dalla controrivoluzione che ha distrutto l’Unione Sovietica multi-nazionale. Vale la pena chiedersi: la Russia è imperialista? Putin sta costruendo un nuovo impero russo? Questo sostengono gli anticomunisti accademici come il sinistro Timothy Snyder della Yale University, che viene benevolmente intervistato dal programma televisivo/radiofonico “progressista” Democracy Now. Snyder è autore di Bloodlands. Europe Between Hitler and Stalin (Basic Books, 2010) [edizione italiana: Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011], che equipara grottescamente l’URSS alla Germania nazista. E l’Ucraina e gli altri Stati “post-sovietici” dell’Eurasia, sono colonie o semicolonie il cui destino viene deciso dal Cremlino?

Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto definire cosa sia l’imperialismo. Le definizioni borghesi standard includono “il principio o la politica di un impero; la difesa del mantenimento di un dominio politico o del controllo sui territori dipendenti” (Oxford English Dictionary), “la politica statale, la pratica o la difesa dell’estensione del potere e del dominio, soprattutto attraverso la conquista territoriale diretta o l’acquisizione del controllo politico ed economico di altre aree” (Encyclopedia Britannica) oppure, più in generale, “una politica o una prassi mediante le quali un paese accresce il proprio potere ottenendo il controllo di altre aree del mondo” (Merriam-Webster). Secondo queste definizioni, sono esistiti l’imperialismo greco e romano nel mondo antico e l’imperialismo britannico, spagnolo, olandese e francese dagli albori dei rispettivi imperi coloniali nel XVI e XVII secolo. A questo elenco di “imperialismi” si potrebbero aggiungere gli Aztechi, gli Incas e l’impero Moghul in India.

Come utilizzano oggi questo termine i fustigatori “socialisti” dell’“imperialismo russo”? L’SWP britannico ha pubblicato un articolo su due pagine intitolato “Imperialism's Game of Empires” (Socialist Worker [UK], 5 aprile 2014) in cui l’imperialismo viene definito come consistente nel “controllo diretto o indiretto dei paesi più deboli”. Questa definizione aclassista potrebbe applicarsi a qualsiasi intervento all’estero da parte di un paese forte. Anche laddove afferma che la “forza motrice” del “sistema globale” dell’imperialismo è “la competizione tra le grandi potenze capitaliste”, subito dopo l’articolo sostiene che la Guerra Fredda è stata un conflitto “tra potenze capitaliste e potenze capitaliste di stato”, essendo quest’ultima la loro etichetta antimarxista per l’URSS e gli Stati operai deformati del blocco sovietico. I cliffisti hanno denunciato per decenni l’intervento sovietico come “imperialismo russo”, dalla Corea negli anni cinquanta fino all’Afghanistan negli anni ottanta, mentre si schieravano coi veri imperialisti.

La loro è una versione condensata della definizione borghese standard, che è molto diversa dalla definizione marxista, e in particolare da quella leninista, dell’imperialismo. Nel suo pamphlet L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), Lenin definisce l’imperialismo capitalista come segue:

“(1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; (2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria; (3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; (4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; (5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”
[V.I. Lenin, Opere complete, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 266.]

Il punto centrale di quest'opera di Lenin è che l’imperialismo non è soltanto una politica, che i governanti possono cambiare – come sostene­vano gli opportunisti, tipo Karl Kautsky – ma piuttosto la fase del capitalismo monopolistico nella quale il dominio del capitale finanziario esige pratiche imperialistiche. La definizione kautskiana serviva a giustificare il suo pro­gramma utopico-riformista e pacifista di pres­sione sui governanti affinché adottassero politi­che pacifiche “non imperialiste”. L’analisi di Lenin metteva a nudo il fatto che l’unica strada verso la pace era il rovesciamento del sistema impe­rialista.

Dove si colloca oggi la Russia, secondo questi criteri? Certamente, in quella terra di “oligarchi”, i monopoli dominano l’economia russa. In generale, poche centinaia di grandi capitalisti controllano circa il 40% delle vendite.3 Ciò è in parte dovuto alla struttura dell’economia, in cui l’industria (mineraria, manifatturiera, edile ed energetica), coi suoi enormi fabbisogni di capitale e con le sue economie di scala, apporta una quota del prodotto interno lordo (37%) molto maggiore rispetto agli Stati Uniti (20%).4 Ma, soprattutto, è un riflesso del fatto che il capitalismo russo è stato costruito sui resti dell’economia centralizzata e collettivizzata, nella quale interi settori industriali e intere catene di distribuzione regionali venivano controllati da un’unica azienda. I monopoli non sono particolarmente grandi rispetto agli standard capitalistici internazionali, ma le piccole imprese sono molto poche.

Uno pseudo-trotskista austriaco, Michael Pröbsting,5 ha recentemente scritto un testo intitolato “Russia as a Great Imperialist Power: The Formation of Russian Monopoly Capital and Its Empire” (Revolutionary Communism, marzo 2014). Pröbsting sostiene che la Russia è imperialista in primo luogo a causa del dominio dell’economia da parte dei monopoli, citando Gazprom, Sberbank, Rosneft, Lukoil e altri. Ma questo non dimostra nulla. Nell’èra dello sviluppo diseguale e combinato, anche nei paesi capitalisti semicoloniali i monopoli spesso dominano l’economia. La compagnia mineraria brasiliana Vale e le messicane Cemex e América Móvil superano Gazprom e Lukoil in termini di attività all’estero,6 ma questo non rende il Brasile o il Messico imperialisti.

E non si tratta certo del dominio del capitale finanziario, pietra angolare dell’analisi leniniana dell’imperialismo. La Russia possiede soltanto due delle prime 100 banche al mondo classificate per secondo il loro patrimonio totale, Sberbank (al n. 74) e VTB (al n. 93), il cui valore congiunto è meno della metà di quello delle tre banche brasiliane presenti nell’elenco (Itaú Unibanco, Banco do Brasil e Bradesco). Le banche costituiscono una parte dell’economia russa (4% del PIL) molto più piccola rispetto agli Stati Uniti (8% del PIL e 41% dei profitti aziendali) o al resto dell’Occidente imperialista, e svolgono un ruolo limitato nella direzione dell’economia. Sberbank è una gigantesca cassa di risparmio, la cui quota maggioritaria è di proprietà dello stato, che finanzia principalmente imprese di proprietà dello stato. La VTB, anch’essa a maggioranza di proprietà statale, è l’ex banca sovietica per il commercio estero. Le sue filiali nelle ex repubbliche sovietiche si concentrano sul finanziamento del commercio con la Russia.

Quanto all’esportazione di capitali, la Russia si situa in una posizione intermedia tra i paesi imperialisti e quelli neocoloniali. Il totale degli investimenti esteri russi ammonta al 21% del PIL, molto meno della Svezia (78%), della Gran Bretagna (74%), della Francia (54%), della Germania (46%) o degli Stati Uniti (35%), o addirittura del Cile (37%); sostanzialmente più del Brasile e del Messico (circa il 10%) e pressappoco lo stesso del Sudafrica (22%).7 Inoltre, mentre nei paesi imperialisti gli investimenti esteri all’esterno del paese (44% del PIL nelle “economie sviluppate”) superano quasi sempre gli investimenti esteri all’interno del paese (33% del PIL), in Russia gli investimenti diretti esteri in uscita (21% del PIL) sono inferiori a quelli in entrata (26%), sebbene il divario non sia altrettanto grande dei maggiori paesi semicoloniali, nei quali i flussi in entrata di capitale possono essere doppi o tripli rispetto a quelli in uscita.

Oltretutto, gran parte dei flussi di capitale in uscita dalla Russia non è affatto costituita da investimenti esteri, ma da fondi occulti nei paradisi fiscali offshore. Si guardi ai paesi che sono destinatari degli “investimenti” esteri russi: Ucraina, 1,2%; resto dell’ex URSS, 3,1%; ma Unione Europea, 64%, di cui Cipro rappresenta 122 miliardi di dollari, ovvero il 34% (che nel 2012 era il 43%).8 Cipro? Non è un centro industriale o di approvvigionamento di materie prime, ma è (o era) un paradiso fiscale. L’altra destinazione principale, le Isole Vergini britanniche (12,8% nel 2012), ha aumentato drasticamente la sua quota da 49 a 80 miliardi di dollari, giacché il denaro russo è fuggito verso il paradiso fiscale britannico dopo il crollo del sistema bancario cipriota nel 2013. Lungi dall’incoraggiare gli investimenti stranieri, il governo russo ha fatto appello a riportare in patria questo “capitale in fuga”, ma senza alcun risultato.9

Gran parte di questo capitale è temporaneamente parcheggiato offshore, come suggerito dal fatto che i flussi di capitali in entrata e in uscita si compensano ampiamente anno dopo anno. La società di contabilità Ernst & Young ha analizzato i movimenti di fondi russi dal 2007 al 2011 (“Capital Outflow from Russia. From Myths to Reality” [2012]), mostrando un movimento verso l’estero di 135 miliardi di dollari e un movimento dall’estero di 133 miliardi di dollari. Ecco la loro conclusione: “L’ammontare del reale flusso all’estero di capitali è sopravvalutato di almeno il doppio.” Inoltre diverse aziende russe di primo piano stanno cedendo le proprie partecipazioni all’estero, come Severstal, che sta cercando di vendere i suoi due impianti siderurgici statunitensi.10 In Asia, in Africa e in America Latina ne hanno molto pochi.

La conclusione è che, lungi dall’avere “un’enorme ‘eccedenza di capitale’” (V.I. Lenin, L’mperialismo [edizione italiana citata, p. 241]) che sta perlustrando il globo alla ricerca di investimenti più redditizi per mettere alle strette i mercati o per aumentare i margini di profitto sfruttando la manodopera a basso salario nei paesi semicoloniali, la Russia ha una carenza di capitali ed è un’importatrice netta di capitali. Soltanto una delle 100 maggiori aziende “transnazionali” del mondo è russa (VjmpelKom, al n. 93, una compagnia di telefonia cellulare con meno della metà di risorse rispetto alla brasiliana Vale e delle stesse dimensioni dell’América Móvil di Carlos Slim, che ha sede in Messico). Per quanto riguarda la ricerca di materie prime, la Russia dispone di grandi quantità di quasi tutte le risorse vitali, tra cui le più grandi riserve di gas naturale al mondo. Essa è principalmente un’esportatrice di materie prime e di energia (petrolio e gas forniscono il 70% dei proventi totali delle esportazioni). In breve, sulla base del criterio dell’esportazione di capitali, la Russia è ben lungi dal poter essere definita come un paese imperialista.

La Russia è imperialista? II. Spartizione e dominio territoriale del mondo

Lo stesso discorso vale per l’appartenenza alle “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo” [Lenin]. Nonostante tutto il parlare di “partnership”, la Russia capitalista post-sovietica è stata considerata come un’estranea, da trattare con cautela. Sebbene la Russia abbia richiesto di entrare World Trade Organization (WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 1993, vi è stata ammessa soltanto nel 2012, più di un decennio dopo la Cina. La Federazione Russa è ancora esclusa dall’Organization for Economic Co-operation and Development (OECD, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), il club dei principali paesi capitalisti, che è invece stato allargato a Polonia, Ungheria, Slovacchia, Messico e Repubblica Cèca. L’alleanza militare imperialista della North Atlantic Treaty Organization (NATO, Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) si sta espandendo fino ai confini della Russia. E adesso la Russia è stata espulsa dal Gruppo delle Otto grandi potenze.

La definizione dell’imperialismo fornita da Lenin comprendeva diversi elementi, e alcuni paesi potevano essere considerati imperialisti secondo la maggior parte dei criteri, ma non tutti. Lo stesso Lenin indicò “un paese, la Russia, il più arretrato nei riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici” [V.I. Lenin, L’mperialismo, edizione italiana citata, p. 259]. Eppure, nonostante la sua debolezza e arretratezza economiche, l’impero zarista ha agito come “gendarme d’Europa” a metà del XIX secolo, schiacciando le rivoluzioni in Ungheria e Polonia; e durante le Guerre balcaniche, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, venne visto come protettore degli Slavi meridionali contro l’impero austro-ungarico. Quindi l’economia russa non è dominata dal capitale finanziario, non è un grande esportatore di capitali e non ha ottenuto la piena ammissione ai club imperialisti, ma che dire del suo ruolo geopolitico?

Pröbsting sostiene che “l’imperialismo russo domina già, o per lo meno svolge un ruolo centrale nell’oppressione di un certo numero di semicolonie dell’Asia centrale e dell’Europa orientale”. Egli sostiene che una delle 28 tabelle che pubblica (la n. 9) dimostra che:

“I monopoli russi stanno investendo soprattutto nell’Asia centrale e nell’Europa orientale semicoloniali, oltre che nell’Europa imperialista occidentale e nei Balcani semicoloniali. Da queste cifre possiamo concludere che i monopoli russi traggono un significativo extra-profitto dai loro investimenti all’estero nei paesi semicoloniali dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’Asia centrale.”

Le cifre però non mostrano nulla del genere, non forniscono alcuna indicazione sull’ammontare effettivo degli investimenti. Con questo gioco di prestigio, egli spera che i lettori non ricordino che una tabella precedente (la n. 4) mostrava che meno del 4% degli investimenti all’estero della Russia era destinato all’Asia centrale, all’Europa orientale e ai Balcani. Anche se una parte dei trasferimenti verso i paradisi fiscali fossero in realtà investimenti in società russe offshore, come le operazioni statunitensi della Lukoil con sede nelle Isole Vergini britanniche, ben poco di questi viene investito in Asia centrale e in Europa orientale.


(Sopra) Il giacimento petrolifero di Tengiz: Gli imperialisti statunitensi ed europei sfruttano le risorse dell’Asia centrale. (Foto: New York Times)

Ad esempio, le statistiche che indicano 2,5 miliardi di dollari d’investimenti esteri russi (lo 0,7% del totale) in Kazakistan sono certamente inferiori all’importo reale. Varie fonti fanno ammontare la cifra reale a 7 miliardi di dollari. Ma si tratta di una cifra inferiore ai 9,7 miliardi di dollari corrispondenti alle imprese statunitensi e a meno dell’8% del totale degli investimenti all’estero del paese (che costituiscono i quattro quinti di tutti gli investimenti esteri in Asia centrale).11 Questo perché gli investimenti sono concentrati nell’industria petrolifera, tra cui il gigantesco giacimento petrolifero di Tengiz, gestito da un consorzio guidato da Chevron ed Exxon, e il mastodontico progetto di Kašagan, intrapreso da un consorzio guidato da ENI (Italia), BP (Gran Bretagna), Statoil (Norvegia), Mobil, Royal Dutch Shell e Total S.A. (Francia). Le russe Rosneft e Lukoil possiedono solo settori minori, giacimenti che producono molto meno dell’austriaca OMW.

Quanto alla spartizione territoriale del mondo, la Russia non ha avuto un grande successo nemmeno in questo campo. Pur avendo condotto due brutali e sporche guerre per impedire la secessione della Cecenia dalla Federazione Russa, i governanti di Mosca hanno accettato l’indipendenza delle repubbliche sovietiche non russe. Eltsin le ha persino incoraggiate, facendo leva sul sentimento sciovinista secondo cui la Russia dovrebbe smettere di sovvenzionare il resto dell’URSS. Putin ha dichiarato che “il collasso dell’Unione Sovietica è stato un grande disastro geopolitico del secolo”, non a causa di una persistente affinità col socialismo, per quanto pervertito e negato dallo stalinismo, ma in virtù della motivazione nazionalista secondo cui “decine di milioni di nostri concittadini e compatrioti si sono venuti a trovare al di fuori del territorio russo” (discorso all’Assemblea federale della Federazione Russa, aprile 2005).

Non c’è dubbio che Putin vorrebbe ripristinare la “gloria” e il potere dell’impero russo, ma la Russia capitalista post-sovietica non è stata e non è ancora in grado di farlo. Mosca non ha esercitato alcuna pressione sulle repubbliche baltiche, sebbene i loro leader capitalisti reazionari abbiano privato svariate centinaia di migliaia di russi etnici della cittadinanza, in Estonia e in Lettonia, sulla base di “leggi di sangue” di stampo nazista, le quali esigono che i russi etnici vengano naturalizzati, rinuncino alla cittadinanza russa e superino esami di lingua discriminatori. In tutti e tre i paesi, le SS e i battaglioni di polizia dei collaboratori dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale vengono acclamati come eroi nazionali, compresi quelli che hanno giustiziato i comunisti e massacrato decine di migliaia di ebrei.


Washington ha promosso la “Rivoluzione dei tulipani” del 2005 (sopra) in Kirghizistan, nell’Asia centrale, fornendo macchine da stampa e finanziando i gruppi d’opposizione, mantenendo una base militare a Manas per rifornire le forze d’occupazione statunitensi in Afghanistan.

Nell’Asia centrale ex-sovietica non ci sono basi militari russe, né Mosca ha esercitato una pressione militare per dominare la regione. Gli Stati Uniti, al contrario, hanno una base a Manas, in Kirghizistan, che è un punto d’appoggio per rifornire la forza d’occupazione imperialista in Afghanistan. Washington ha anche riversato in quel paese centinaia di milioni di dollari in aiuti, tra cui decine di milioni per promuovere la “democrazia” e la “società civile”. Utilizzando il canale del National Endowment for Democracy, Washington ha finanziato gruppi d’opposizione kirghisi che hanno anche utilizzato una tipografia della Freedom House per preparare la “Rivoluzione dei tulipani” del 2005, che ha rovesciato il governo di Askar Akaev e ha insediato Kurmanbek Bakiyev come presidente.12 Bakiyev è stato a sua volta rovesciato nel 2010 dagli oppositori, alimentati dal malcontento per la base statunitense e per la corruzione endemica del governo.

In Georgia gli Stati Uniti hanno organizzato nel novembre 2003 la cosiddetta “Rivoluzione delle rose” per estromettere dal governo l’ex ministro degli Esteri sovietico Eduard Ševardnadze, utilizzando una rete di “organizzazioni non governative” (ONG) foraggiate dagli Stati Uniti e agenti serbi addestrati dagli Stati Uniti che avevano organizzato il rovesciamento di Slobodan Miloš ević nel 2000. Il sostituto di Ševardnadze, Micheil Saakašvili, educato negli Stati Uniti (ha conseguito una laurea in Legge alla Columbia University grazie a una borsa di studio del Dipartimento di Stato), è stato sostenuto dal finanziere George Soros, il cui impero di ONG della “Open Society” è stato attivo anche in Ucraina nel 2004, e poi di nuovo nel 2013-14. Dopo aver preso il potere con un colpo di stato, Saakašvili ha subito richiesto l’adesione della Georgia alla NATO.

Nel 2008 Saakašvili ha aperto le ostilità scatenando, infine, una guerra di cinque giorni contro la Russia, con provocazioni militari nelle enclavi filorusse dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, dove le forze di pace russe erano di stanza da quando la Georgia aveva tentato di reprimere le rivolte della popolazione locale nel 1991-92. In risposta agli attacchi georgiani, Mosca inviò le truppe russe che respinsero gli invasori, ma poi avanzarono in Georgia in quella che divenne una guerra reazionaria russo-georgiana. Ma persino i funzionari della NATO e gli osservatori dell’Organization for Security and Cooperation in Europe (OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) accusarono la Georgia di aver scatenato il conflitto nella speranza di far intervenire la NATO e di accelerare la propria pratica di adesione all’alleanza militare imperialista. Lungi dall’essere espansionistica, l’azione militare russa è stata essenzialmente difensiva.

Perciò quando si parla di una potenza imperialista che sfrutta le semicolonie dell’Asia centrale e del Caucaso, che trae superprofitti esportando capitali per sfruttare le loro risorse naturali, che interviene con massicci finanziamenti per influenzare la politica locale, che organizza colpi di stato e mantiene basi militari, chi ha fatto tutto ciò nel periodo post-sovietico non è la Russia ma sono gli Stati Uniti. Sicuramente i governanti capitalisti russi cercano di dominare lo spazio geopolitico attorno al loro limitato settore e di spadroneggiare sugli Stati più deboli e sottomessi. Putin sogna chiaramente di farlo. Ma al momento la Russia può soltanto respingere gli attacchi dell’aggressivo imperialismo U.S.A. e dei suoi alleati imperialisti della NATO che, a volte attraverso i loro fantocci regionali, sono decisi ad anneintare qualsiasi sfida alla propria egemonia globale.


Gli imperialisti statunitensi hanno anche architettato la “Rivoluzione delle rose” del 2003 in Georgia, insediando come presidente fantoccio Micheil Saakašvili, il quale nel 2008 attaccò le enclavi filorusse dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud nella speranza di accelerare l’adesione della Georgia alla NATO. (Foto: Shakh Alvazov/AP)

La Russia come paese capitalista in transizione e come potenza regionale

Contrariamente ai sostenitori socialdemocratici della propaganda imperialista contro l’“imperialismo russo” Lenin non suddivise il mondo esclusivamente in paesi imperialisti e colonie o semicolonie. Nel suo opuscolo sull’imperialismo, il dirigente bolscevico fa riferimento in vari punti ai “paesi non coloniali” e alle “semicolonie” (come la Persia, la Cina e la Turchia), a “tutta una serie di forme transitorie della dipendenza statale”, tra cui l’Argentina (“press’a poco, una colonia commerciale inglese”) e il Portogallo (che “si trova sotto il protettorato dell’Inghilterra”), e più in generale alle “forme di transizione nelle quali ci imbattiamo in tutti i campi, così della natura come della società”. La sua idea era che sono tutti “anelli della catena di operazioni del capitale finanziario mondiale”, parte di un “sistema generale”: l’imperialismo [V.I. Lenin, L’imperialismo, edizione italiana citata, p. 258-260, 263-264 (corsivo nel’originale)].

La Russia odierna è un paese capitalista in transizione, né una semicolonia né uno stato imperialista – non ancora. Un altro esempio di paese capitalista intermedio è la Grecia.13 Geopoliticamente parlando, la Russia è una potenza regionale con ambizioni imperiali. Non è un caso unico. Il Sudafrica, sia sotto il regime dell’apartheid che adesso, sotto il neo-apartheid capitalista nero, ha cercato di controllare le zone meridionali del continente africano. Perfino i paesi semicoloniali più grandi possono svolgere tale ruolo: l’Iran sotto lo scià, e poi Khomeini e i suoi eredi hanno cercato di dominare la “propria” regione, compresi gli staterelli del Golfo “Persico”. Il Brasile fa da sceriffo per conto dell’imperialismo yankee nei Caraibi, fornendo truppe mercenarie per l’occupazione U.S.A./ONU di Haiti. La Russia di Putin gioca pesante con l’Ucraina per le forniture e i prezzi del gas? Per decenni il Brasile ha imposto al Paraguay pagamenti sottocosto per l’elettricità proveniente dalle cascate dell’Iguazu.

I marxisti si oppongono alle ambizioni imperiali e di grande potenza di queste potenze regionali, concentrando il proprio fuoco sui veri imperialisti, che amano perpetrare le loro aggressioni spacciandosi per difensori dei diritti umani, della democrazia e cose del genere. L’ha fatto Woodrow Wilson nella Prima Guerra Mondiale imperialista, l’hanno fatto gli imperialisti “democratici” nella Seconda Guerra Mondiale, l’ha fatto Bill Clinton attaccando due volte la Serbia, e oggi il liberaldemocratico statunitense Barack Obama, il “socialista” francese François Hollande e il conservatore britannico David Cameron suonando la stessa musica nel foraggiare gli esecutori delle “pulizie etniche” islamiste in Siria e i pogromisti nazisti in Ucraina. Oggi la principale minaccia per il popolo lavoratore nello scontro sull’Ucraina è la giunta di Kiev, formata da fascisti etnico-nazionalisti e da esponenti della destra del libero mercato e sostenuta dagli imperialisti, non un qualche “imperialismo russo”.

Che dire dunque delle pretese dell’aggressione russa contro la “povera piccola Ucraina”? In primo luogo, l’incorporazione della Crimea da parte di Putin è potuta avvenire senza sparare un colpo perché godeva del sostegno entusiastico e schiacciante della popolazione locale. La Crimea era storicamente parte della Russia e la grande maggioranza della sua popolazione era culturalmente russa, ed era stata “regalata” all’Ucraina soltanto nel 1954 da Nikita Krusciov. A quell’epoca il cambiamento amministrativo non fece molta differenza per la popolazione, giacché l’Ucraina e la repubblica russa facevano parte di un unico stato, l’Unione Sovietica. I residenti hanno continuato a identificarsi con la Russia, in parte a causa del dominio economico sulla penisola da parte della base della flotta russa nel Mar Nero, a Sebastopoli, e perché molti membri della popolazione di lingua russa, che ammonta al 95% (tra cui russi etnici e ucraini etnici), sono veterani dell’esercito e della marina.

L’Internationalist Group e la Lega per la Quarta Internazionale hanno sostenuto l’auto-determinazione della Crimea e la sua adesione alla Federazione Russa. L’azione militare della Russia, lungi dall’essere un atto d’aggressione, ha facilitato l’esercizio di questo diritto democratico ripudiando la giunta ucraino-nazionalista di Kiev sostenuta dagli imperialisti, che era ostile alla (e disprezzata dalla) popolazione delle regioni russofone dell’Ucraina. L’intervento russo è stato anche una mossa difensiva per prevenire un’azione militare da parte di un’Ucraina ostile e sostenuta dalla NATO per impadronirsi di Sebastopoli. Questo porto non solo ospita la flotta del Mar Nero, ma è vitale per le esportazioni russe perché domina l’accesso all’unico grande porto russo su mare dalle acque calde (che non congela in inverno), Novorossijsk. Se la NATO ottenesse il controllo di Sebastopoli, lo userebbe per strangolare economicamente la Russia.


MAPPA DELLE FORNITURE DI GAS DELLA RUSSIA ALL’UCRAINA E ALL’EUROPA DELL’EST

Quanto alle chiacchiere sull’orso russo che si pappa il sud-est dell’Ucraina, si tratta di un rozzo allarmismo da guerra fredda. Il risultato sarebbe un nuovo staterello ucraino dominato da un governo nazionalista virulentemente anti-russo con sede nell’Ucraina occidentale, attraverso la quale passa la maggior parte dei 12 gasdotti che trasportano il gas russo in Europa. Questi potrebbero essere bloccati in un attimo e, quantunque la Russia abbia ora aperto il gasdotto Nord Stream sotto il Mar Baltico che può trasportare soltanto una parte delle esportazioni di gas russo verso l’Europa. Inoltre la popolazione dell’Ucraina orientale è più eterogenea di quella della Crimea, con una forte minoranza ucraina madrelingua. Un’acquisizione da parte della Russia (in contrapposizione all’autogoverno) si scontrerebbe senza dubbio con infiniti attacchi dei nazionalisti ucraini. In uno dei suoi pochi momenti di lucidità, il New York Times (13 maggio 2014) l’ha riconosciuto, commentando:

“Il signor Putin ha fornito ogni indicazione che il suo vero obiettivo non è quello di annettersi altro territorio ucraino, bensì di trasformare l’Ucraina in una federazione sotto un governo di Kiev debole e neutrale permanentemente dipendente dalla Russia.”

Al contrario, ciò che vogliono gli imperialisti guerrafondai più aggressivi è un’Ucraina dipendente dall’Occidente che costituirebbe una minaccia militare permanente per la Russia. Una tale configurazione porterebbe inesorabilmente alla guerra. Le provocazioni dell’ultradestra ucraina, o di altri, sarebbero imprevedibili. Nessun accordo “di pace” potrebbe scongiurare questo pericolo, per cui tornerebbe alla ribalta la deterrenza nucleare e, con essa, la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”. Il Pentagono lo sa bene, ed è per questo che finora non ha dato seguito alle richieste ucraine (o georgiane) di entrare nella NATO. Il Cremlino ancor di più vede questo scenario pericoloso all’orizzonte, dunque si è mosso per evitarlo.

Ucraina: una neocolonia della Russia post-sovietica?

Aldilà della propaganda anti-russa da guerra fredda, la questione del rapporto dell’Ucraina con la Russia resta lì: sotto l’impero zarista, nell’Unione Sovietica e dalla distruzione dell’URSS fino alla restaurazione del capitalismo. È vero, come sostiene l’ISO statunitense, che la Russia è “la padrona imperiale passata e presente dell’Ucraina”? Questo ritornello sulle “nazioni imprigionate” costituisce sicuramente il punto di vista dei leader della giunta di Kiev, il “primo ministro” Arsenij Jacenjuk e il “presidente” Oleksandr Turčynov, e dei nazionalisti ucraini in generale, che giustificano l’attacco militare contro l’Ucraina orientale con la pretesa che stanno combattendo per scrollarsi di dosso il giogo imperiale russo (anche se poi cercano di diventare una semicolonia dell’Unione Europea imperialista).

L’Ucraina è stata certamente una nazione oppressa sotto lo zarismo, una delle tante nella “prigione dei popoli” dei Romanov. La cultura ucraina venne perseguitata e la lingua ucraina fu bandita dalle scuole a partire dal 1804. Inoltre alla fine dell’Ottocento l’Ucraina ospitava il 20% di tutti gli ebrei europei, che furono assaliti dalla repressione zarista e dai pogrom, spigendo molti di loro a fuggire dall’Ucraina. Ma molti altri rimasero, e gli ebrei ucraini svolsero un ruolo di primo piano nel movimento socialista, una delle ragioni del pogrom di Odessa perpetrato dalle Centurie Nere zariste nel momento culminante della Rivoluzione Russa del 1905.

Abbiamo osservato come, durante la guerra civile che fece seguito alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, Lenin e Trotsky abbiano unificato i bolscevichi ucraini e russi e i nazionalisti ucraini che si stavano spostavano a sinistra in un unico partito comunista. Una repubblica sovietica di breve durata, del Donetsk-Krivoj Rog, nella parte orientale del paese, venne integrata nella Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, con capitale a Charkiv. Nel suo discorso al parlamento russo sulla Crimea, Putin si è lamentato del fatto che: “Dopo la rivoluzione i bolscevichi, per una serie di ragioni – che sia Dio a giudicarli – hanno aggiunto alla Repubblica ucraina ampie zone del sud storico della Russia. Ciò è stato fatto senza alcuna considerazione per la composizione etnica della popolazione” (RT, 19 marzo 2014). I nazionalisti russi accusano Trotsky di questo atto, che è stato fondamentale per creare un’Ucraina multi-nazionale. Quello del’omogeneità etnica è un programma sciovinista.

Nei primi anni della Russia sovietica, i bolscevichi seguirono una politica di korenizacija, o indigenizzazione, promuovendo l’uso e lo sviluppo delle lingue native nelle zone non russe dell’URSS. L’uso dell'ucraino venne incoraggiato nel governo e nelle scuole. Ma, nel contesto del dogma nazionalista staliniano della costruzione del “socialismo in un paese solo”, fu varata un’aggressiva campagna di russificazione: nel 1929 gli intellettuali ucraini vennero arrestati; pochi anni dopo fu vietato l’insegnamento in lingua ucraina nelle scuole e i giornali passarono al russo. A ciò si aggiunga il terribile tributo della collettivizzazione forzata, durante la quale morirono diversi milioni di persone nella carestia del 1932-33. E, come osservò Trotsky, le sanguinose epurazioni staliniane contro i comunisti sul finire degli anni trenta colpirono il Partito Comunista Ucraino più duramente che altrove.

Ma la storia dell’Ucraina nel quadro dell’Unione Sovietica non si esaurisce qui. A partire dagli anni trenta, l’Ucraina orientale divenne il centro industriale dell’URSS. Dopo l’ascesa al potere a Mosca dell’ex capo del partito ucraino Nikita Krusciov, nel 1954, la politica linguistica venne attenuata e la lingua ucraina fu nuovamente utilizzata nelle scuole e nei mass media, sebbene il russo fosse ancora prevalente, così come la repressione di tutti i dissidenti – sia pro che anti-socialisti. Lo stesso avvenne sotto l’ucraino Leonid Brežnev, che succedette a Krusciov al Cremlino dal 1964 al 1982. I redditi e le forniture di beni di consumo aumentarono e, nel 1991, il tenore di vita in Ucraina era leggermente superiore a quello della repubblica russa. Poi la controrivoluzione ha devastato l’economia e i redditi si sono ridotti fino a due terzi. Il capitalismo ha gettato milioni di ucraini nella povertà.

Oggi i redditi sono molto più alti in Russia che in Ucraina: le pensioni in Russia sono il doppio di quelle dell’Ucraina (questo è uno dei motivi per cui anche gli ucraini etnici hanno votato per l’ingresso della Crimea nella Russia). Ciò è dovuto principalmente al boom della produzione russa di petrolio e di gas e all’aumento internazionale dei prezzi dell’energia. Eppure, nonostante tutta la propaganda sull’utilizzo del gas naturale da parte della Russia per “ricattare” l’Ucraina, anche dopo che i prezzi del gas russo all’Ucraina furono più che raddoppiati nel 2006, il prezzo medio (130 dollari per mille metri cubi) era appena il 40% di quello praticato alla Germania (320 dollari/mc).14 Lungi dal trarre superprofitti dalle vendite di gas all’Ucraina, la Russia ha fortemente sovvenzionato l’industria e i consumatori ucraini al fine di mantenersi amico il paese, mentre l’Ucraina ha periodicamente utilizzato il proprio controllo dei gasdotti e degli impianti di stoccaggio per sottrarre enormi quantità di gas.15

L’altra grande differenza tra l’economia ucraina e quella russa risiede nel ruolo degli “oligarchi”. In entrambi i paesi, la scomparsa dell’economia socializzata è stata contrassegnata da un saccheggio su vasta scala, visto che le imprese privatizzate sono state consegnate agli amici per una cifra irrisoria. Questo è tipico della formazione di una nuova classe capitalista, che quasi sempre è frutto della promozione statale. La differenza tra la Russia e l’Ucraina è che, a partire dal 2000, Putin ha recuperato parte dei guadagni illeciti, ha rafforzato i settori strategici di proprietà statale e ha messo alle strette i boiardi (prìncipi) capitalisti, alcuni dei quali sono fuggiti in esilio (Berezovskij, Gusinsk) e altri sono stati incarcerati (Chodorkovskij). In Ucraina il saccheggio non si è mai fermato e gli oligarchi hanno continuato ad avere mano libera, indipendentemente da chi fosse il presidente.

Le aziende russe hanno un peso limitato in Ucraina, poiché gli oligarchi “filo-russi” e “filo-ucraini” si sono uniti per tenere fuori i loro cugini russi più ricchi. Quanto alle raffinerie di petrolio, abbiamo assistito a un braccio di ferro: nel 2007 la compagnia russa Tatneft’ è stata estromessa sotto la minaccia delle armi dall’impianto più grande (a Kremenčug), mentre di recente un tribunale ha posto sotto sequestro una raffineria più piccola di Odessa, che era più volte passata di proprietà tra russi e ucraini. Oggi la più grande raffineria di proprietà straniera (la Cherson) appartiene alla compagnia petrolifera di stato kazaka. Le imprese russe sono anche state largamente escluse dall’industria siderurgica: quando la più grande acciaieria, la Kryvorižstal’, è stata privatizzata nel 2004, la società russa Severstal’ è stata esclusa e l’assegnazione iniziale al barone dell’acciaio dell’Ucraina orientale Rinat Achmetov è stata annullata per ordine presidenziale. Lo stabilimento è stato poi venduto ad ArcelorMittal con un prestito della Citigroup. Nel 2010 il governo ha assegnato ad Achmetov il secondo più grande complesso siderurgico, il Mariupol's'kjy Metalurgyjnyj Kombinat imeni Illiča [stabilimento metallurgico Illiča di Mariupol], per tenere lontani gli investitori russi.16


L'Ucraina è una semicolonia della Russia? L'Ucraina non ha la tipica economia semicoloniale basata sull’estrazione di risorse, ma è un paese fortemente industrializzato, decimo esportatore di armi e decimo produttore d’acciaio al mondo. In alto, un lancia missili balistici intercontinentali russo R-36 e, in basso, un aereo da trasporto Antonov 124, entrambi fabbricati in Ucraina e venduti principalmente alla Russia. 

L'Ucraina non ha una tipica economia semicoloniale basata sull’estrazione di risorse. È fortemente industrializzata ed è il decimo esportatore d’armi al mondo (nel 2012 era il quarto), davanti a Israele e alla Svezia, producendo non solo armi leggere ma anche una gamma completa di armi pesanti, carri armati compresi.17 L’Ucraina è anche il decimo maggior produttore di acciaio al mondo.18 E, contrariamente alle notizie giornalistiche sulla sua “Rust Belt” [zona industrializzata in declino], l’industria pesante dell’Ucraina orientale ha avuto una certa ripresa, mentre gli impianti di produzione di manufatti leggeri dell’ovest hanno chiuso a causa della concorrenza delle importazioni di minor costo. La realtà è che la Russia è stata il principale cliente degli impianti ucraini di ferro, acciaio, metallo e armi. L’industria aeronautica ucraina con sede a Kiev e Charkiv lavora in stretta collaborazione con gli stabilimenti russi di Samara e Voronež.

Gli abitanti dell’Ucraina orientale sono ben consapevoli del fatto che, se il paese entrasse nell’orbita dell’Unione Europea, la maggior parte di questa industria verrebbe distrutta, in quanto i capitalisti statunitensi ed europei si accaparrerebbero qualche bocconcino prelibato e i lavoratori sarebbero condannati alla disoccupazione.

Nel complesso l’Ucraina, così come la Russia, è un paese capitalista intermedio, in transizione, anche se è ancora impantanato nel disagio economico post-controrivoluzione e assai più debole militarmente. Ma se i salari e i redditi dei lavoratori sono a livelli di povertà, ciò non è dovuto al supersfruttamento da parte della Russia. La causa risiede soprattutto nel fatto che i governanti capitalisti dell’Ucraina si sono schifosamente arricchiti saccheggiando le ricchezze del paese. Infatti molti oligarchi ucraini hanno utilizzato le ricchezze da loro accumulate per acquistare aziende straniere. Così, oltre a Serhiy Taruta, che è proprietario di importanti acciaierie in Ucraina, Polonia e Ungheria, il gruppo Privat di Ihor Kolomojs’kyj controlla banche, compagnie aeree, raffinerie di petrolio, acciaierie e impianti di ferroleghe in Ucraina, Romania, Polonia, Georgia e Russia, nonché l’australiana Consolidated Minerals, che detiene il 10% della produzione mondiale di manganese. Per non parlare del magnate dei tubi Viktor Pinčuk e del “re del cioccolato” Petro Porošenko, tra gli altri.

La questione della lingua è stata un parafulmine per il sentimento nazionalista ucraino anti-russo. Ciò è dovuto in gran parte alla vasta popolazione di etnia russa nell’est e nel sud del paese, molta della quale professa poca fedeltà allo stato ucraino, ma anche e altrettanto al fatto che il numero effettivo di russofoni vi è di gran lunga superiore. Mentre il 30% della popolazione indica il russo come lingua madre, il 46% dichiara di parlarlo in casa, oltre la metà afferma che è la propria lingua quotidiana, e il russo è la lingua più comune nei mass media e nel mondo degli affari. Inoltre, nelle regioni centrali dell’Ucraina un’ampia percentuale parla il suržyk, che è una mistura di vocabolario ucraino e russo, cosicché l’ucraino “puro” è la lingua dominante soltanto nella parte occidentale del paese. I nazionalisti etnici stanno quindi cercando di imporre l’uso dell’ucraino a una popolazione riluttante.

La decisione della Rada (Consiglio Supremo) ucraina, adottata all’indomani del colpo di stato, di eliminare lo status ufficiale della lingua russa nell’Ucraina orientale non è stata frutto di un caso. Non soltanto i fascisti, ma anche i partiti nazionalisti borghesi “moderati”, hanno votato a favore lo scorso autunno. Quando i movimenti nazionalisti conquistano il potere, è normale che cerchino di imporre una lingua nazionale, e i nazionalisti ucraini sono contrariati dal fatto che il russo rimanga la lingua predominante. Gli internazionalisti marxisti, al contrario, si oppongono all’imposizione di lingue ufficiali o al privilegio statale per qualsiasi lingua.19 Le richieste che tutti i cittadini ucraini debbano parlare l’ucraino e che gli affari ufficiali e l’istruzione scolastica debbano svolgersi in lingua ucraina, in parallelo con quanto avviene in Estonia e in Lettonia, sono discriminatorie e scioviniste, e noi ci opponiamo a esse esattamente allo stesso modo in cui ci opponiamo alla Legge 101 sulla lingua francese in Quebec, che cerca di imporre per legge l’uso del francese agli anglofoni e agli immigrati.20

Insomma, oggi il rapporto tra Russia e Ucraina non è quello tra un padrone imperiale e un vassallo semicoloniale, ma tra due stati capitalisti di livello intermedio, nonostante le differenze del loro potere relativo. Il Canada e gli Stati Uniti sono entrambi stati imperialisti e, sebbene gli U.S.A. siano molto più forti, tra loro non c’è alcuna differenza qualitativa. I marxisti debbono tener conto della lunga storia dell’oppressione ucraina messa in atto dall’impero russo zarista e dagli sciovinisti stalinisti grandi-russi, ma il nazionalismo ucraino anti-russo non è meno reazionario (e, come tutti i nazionalismi, è borghese). Mentre combattono anche il nazionalismo russo nell’Ucraina orientale, i trotskisti lottano per l’internazionalismo proletario contro tutti gli sfruttatori capitalisti, e in particolare contro gli imperialisti, contro i loro burattini borghesi ucraini e contro i loro cani da guardia fascisti. ■


  1. 1. “The New World Order”, The Economist, 22 marzo 2014.
  2. 2. Si veda “Down with the Imperialist-Backed Fascist/Nationalist Coup in Ukraine!” The Internationalist, marzo 2014.
  3. 3. Sergei Guriev e Andrei Rachinsky, “The Role of Oligarchs in Russian Capitalism”, Journal of Economic Perspectives, inverno 2005.
  4. 4. Dati della Banca Mondiale: http://data.worldbank.org/indicator/NV.IND.TOTL.ZS
  5. 5. Pröbsting parla a nome della Revolutionary Communist International Tendency (RCIT), una scissione del 2011 dalla Lega per la Quinta Internazionale guidata dal gruppo britannico Workers Power. Pur dichiarandosi trotskisti, sia la RCIT che il suo progenitore dichiarano morta la Quarta Internazionale dal punto di vista non solo organizzativo, ma anche programmatico. Workers Power è una scissione, avvenuta a metà degli anni settanta, dagli International Socialists cliffisti. Oggi tutti costoro dichiarano la Cina “capitalista di stato”, proprio come Cliff fece con la Russia durante la Prima Guerra Fredda. In ogni caso, stanno inventando un’etichetta per giustificare il loro rifiuto di difendere gli stati operai degenerati/deformati contro l’imperialismo.
  6. 6. United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD, Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo), World Investment Report 2013, Tabella delle prime 100 TNC delle economie in via di sviluppo o in fase di transizione (al 2011). [TNC è l’acronimo di Transnational Corporation, Società tansnazionali.]
  7. 7. Le cifre riportate in questo paragrafo sullo stock di investimenti diretti esteri in uscita e in entrata si riferiscono al 2012: UNCTAD, World Investment Report 2013, FDI/TNC database. [FDI è l’acronimo di Foreign Direct Investment, Investimento diretto straniero.]
  8. 8. Aleksei Kuznetsov, “Russian Multinationals FDI Outflows Geography: the Emerging Dominance of Greater Europe”, European Researcher, a. LXVII, n. 1-2, 2014.
  9. 9. “Gli appelli del presidente Vladimir Putin affinché le imprese nazionali rimpatriassero i loro fondi dalle giurisdizioni offshore sono caduti nel vuoto” (“Russian Investors Flock to Virgin Islands After Cypriot Crisis”, Moscow Times, 18 agosto 2013).
  10. 10. “Russian Steel Billionaire Mordashov Seeks U.S. Pull Out”, Bloomberg, 16 maggio 2014.
  11. 11. OECD Investment Policy Reviews, Kazakistan 2012: Foreign Direct Investment in Kazakhstan (al 2012).
  12. 12. “U.S. Helped Prepare the Way for Kyrgyzstan's Uprising”, New York Times, 30 marzo 2005.
  13. 13. Abbiamo osservato altrove come la Grecia non sia né un paese semicoloniale né un paese imperialista a tutti gli effetti, bensì “una potenza sub-imperialista i cui capitalisti possiedono la più grande flotta navale del mondo (anche se per lo più non batte bandiera greca); le cui banche hanno storicamente avuto una posizione privilegiata nel Mediterraneo orientale e ora stanno acquisendo banche e aziende in tutti i Balcani; e che domina economicamente la Macedonia e l’Albania” (“Greece on the Razor's Edge”, The Internationalist, n. 32, gennaio-febbraio 2011).
  14. 14. Simon Pirani, Ukraine's Gas Sector, The Oxford Institute for Energy Studies, giugno 2007.
  15. 15. In un articolo di due esperti della Brookings Institution si legge: “Il fatto puro e semplice è che la Russia oggi sostiene l’economia ucraina per almeno 5 miliardi di dollari, forse fino a 10 miliardi, ogni anno” (Clifford Gaddy e Barry Ickes, “Ukraine: A Prize Neither Russia Nor the West Can Afford to Win”, Brookings, 22 maggio 2014). Tale sussidio non si limita al gas a basso costo, ma include anche le industrie manifatturiere e della difesa dell’Ucraina, che dipendono quasi interamente dalle esportazioni verso la Russia. Quando l’anno scorso la Russia smise di commissionare locomotive ferroviarie e materiale rotabile, l’Ucraina ha perso miliardi di dollari e i suoi impianti hanno di fatto chiuso.
  16. 16. Sławomir Matuszak, The Oligarchic Democracy: The Influence of Business Groups on Ukrainian Politics, OSW Studies, 2012.
  17. 17. SIPRI Yearbook, 2013. [SIPRI è l’aconimo di Stockholm International Peace Research Institute.]
  18. 18. “World Steel Statistics Data 2013”, World Steel Association, gennaio 2014.
  19. 19. “In particolare, la socialdemocrazia respinge la lingua ‘ufficiale’” e sostiene “la possibilità di accordarsi su una delle lingue, senza nessun privilegio ‘ufficiale’” (V.I. Lenin, “Tesi sulla questione nazionale”, giugno 1913). [V.I. Lenin, Opere complete, vol. 19, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 222.] I bolscevichi non fecero del russo la lingua di stato e di fatto promossero le lingue non russe nell’insegnamento e nell’amministrazione, nell’ambito della politica di korenizacija (indigenizzazione), ivi compreso l’uso di lingue minoritarie nelle regioni con minoranze etniche, tra cui i russofoni nell’Ucraina orientale.
  20. 20. Nello stesso tempo ci opponiamo alle politiche aziendali che impongono l’uso della lingua preferita dalla dirigenza.